La realtà, la lealtà e lo scontro

C’è qualcuno che ha paura.
Paura di guardarsi dentro prima, e guardare fuori dopo. Paura di scoprire un universo lontano dal ruolo assegnatogli, che cozza violentemente con le illusioni dello spettacolo e del dominio. Paura di capire che il proprio destino è non arrivare mai alla carota che pare luccicare davanti. Certo il risveglio è doloroso perchè dietro c’è il bastone, ma il mattino ha l’oro in bocca.
Perciò è la realtà.

C’è qualcuno che ha paura, ancora.
Paura di spegnersi come un lumino in un cimitero. E lotta per risplendere con forza, con passione, per brillare al sole come tamburi di guerra che battono in cuor suo e in quelli che pulsano intorno. Lampi che squarciano il buio gli occhi suoi, che scavano e si lasciano scavare, che riempiono chi li sa accogliere, che tormentano chi li vuole respingere.
Perciò è la lealtà.

C’è qualcuno che mette paura.
Col buio, fabbricato con luci e bagliori con cui riempie anime dannate. Con i suoi mille e mille soldati che di umano non hanno più niente, nemmeno la maschera da carogna che si portano dietro soddisfatti. Con un grande inganno, disseminato tra le infinite, false, vigliacche, infami esistenze. Pronti a sacrificare la realtà e la lealtà sugli altari dell’impero.
Perciò è lo scontro.

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Nirvana live @ Kryptonight, Baricella (BO) - 20/11/91Esattamente due anni fa, in occasione del ventesimo anniversario della pubblicazione di “Nevermind” dei Nirvana, avevo pubblicato questo post. Nel post scriptum finale promettevo che un giorno avrei proseguito il racconto, e poichè ogni promessa è debito ma l’anno scorso me ne sono dimenticato ho pensato di farlo oggi.

Nel precedente post menzionavo che due anni prima dei fatti narrati (dunque nell’ormai lontano 1989) non ero riuscito ad andare al Bloom di Mezzago per il concerto dei Tad, il cui gruppo spalla ai tempi erano proprio i Nirvana, all’epoca misconosciuti ma che già seguivo da tempo. Galvanizzato dall’uscita di “Nevermind” organizzo dunque una spedizione di amici pescaresi verso il Castello di Roma per il 19 Novembre 1991: prima delle due date italiane, nonchè più vicina. Mettiamo insieme una decina di appassionati in due automobili, che sarebbero poi rientrate alla base subito dopo il concerto, pratica assai in uso a quei tempi: data la cronica -e mai risolta fino ai giorni nostri- assenza di concerti di rilievo dalle nostre parti, si andava spesso ai concerti in location “a portata di mano” (Roma appunto, ma soprattutto le Marche e la costa romagnola) per poi tornare a casa nelle prime ore del mattino, ad un orario certamente tardo ma spesso e volentieri non più tardo di quello in cui tuttora si rientra per le inutili seratine locali, nella maggior parte dei casi pallide e noiose fotocopia l’una dell’altra. Arriviamo dunque sul posto, per trovarlo stipato di gente: noi ce lo aspettavamo naturalmente, ma va tenuto presente che ai tempi la band era in tour in Europa nel classico van a noleggio, con fonico e tour manager e magari un driver come un qualunque gruppo cosiddetto “indie” fa anche attualmente, ma senza internet e cellulari non aveva una percezione molto nitida del boom che il loro disco stava avendo negli USA (ma anche in tutto il mondo). Assistiamo dunque ad un concerto da paura, naturalmente in trio: Pat Smear non sarebbe infatti stato della partita se non giusto un paio d’anni più tardi, inoltre per tutti era la prima occasione per vedere in azione il nuovo poderoso batterista Dave Grohl. E con soli due album all’attivo, il “vecchio” repertorio viene ampiamente saccheggiato, per la gioia degli astanti. Così, durante la birretta post-concerto, il nostro eroe prende la delirante decisione di andare a vedere anche la data del giorno successivo in provincia di Bologna (la mia ex città, come amo definirla). Tra lo stupore dei miei compagni di viaggio, lascio dunque ripartire l’allegra brigata nella notte alla volta della costa adriatica e svolto “on-the-fly” un posto letto capitolino a casa di un’amica dei miei compagni, della quale tuttavia non ricordo assolutamente nulla. L’indomani riesco a contattare telefonicamente un mio caro amico pescarese trapiantato a Milano nella sede dell’azienda per cui lavorava all’epoca , poichè ricordavo che in precedenza mi avesse detto che anche lui sarebbe andato al concerto dei Nirvana, a costo di andarci da solo. Gli comunico le mie intenzioni, lui ingenuamente mi chiede “scusami ma non sei andato anche tu poi ieri sera con gli altri?” e naturalmente, alla mia risposta che valeva la pena di rivedere il concerto, si gasa. Ci diamo quindi appuntamento alla stazione di Bologna nel tardo pomeriggio, e parto da solo in treno alla volta della mia città natale. Una volta caricato nella Citroen BX del mio amico, gli faccio da navigatore per cercare il locale visto che di navigatori satellitari e altre diavolerie moderne non c’era nemmeno l’ombra. Conoscevamo infatti il Kryptonight di Baricella di nome per via di altri concerti svoltisi lì in quel periodo, ma nessuno dei due ci era mai stato. Le faticose ricerche oltretutto si sono svolte nel buio pesto, e soprattutto in mezzo a una nebbia che come direbbe mia madre -nativa della zona- si poteva tagliare col coltello. Alla fine in un modo o nell’altro troviamo questo posto sperduto in mezzo al nulla, e una volta parcheggiata la nostra auto ci troviamo di fronte a una situazione alla quale francamente nessuno aveva pensato prima: il Kryptonight era infatti una piccola discoteca riconvertita a sala concerti (triste pratica italiota attualmente ancora in voga), dalla capienza limitata  e dunque già irrimediabilmente “sold out”, con tanto di ingresso bloccato dalle transenne. Ma soprattutto all’esterno del locale c’era una folla assai rumoreggiante, evidentemente seccata dalla situazione creatasi, e appariva subito chiaro che quelli che avevano deciso di gettare la spugna erano veramente pochi, mentre il grosso di quelli rimasti fuori non aveva alcuna intenzione di tornare a casa senza vedere il concerto. E così io e il mio amico ci uniamo alla “protesta” degli esclusi: comincia dunque un pressing tipo pogo, al termine del quale dopo un po’ la security decide di mollare, le transenne vengono aperte e almeno un centinaio di persone entra nel locale, ovviamente senza biglietto. La situazione all’interno, già al limite della capienza, diventa infernale: un caldo assurdo e gente ovunque, anche arrampicati nei posti più improbabili. La band, evidentemente molto a suo agio nella situazione di piccolo club, ripaga l’estenunante attesa con una performance anche migliore di quella della sera precedente, se possibile. Si esce spossati ma soddisfatti, in un lago di sudore, e ci si rituffa nella nebbia della bassa padana. Ovviamente non ricordo dove andammo poi a passare la notte, ma poco importa: l’inatteso capovolgimento di fronte all’ingresso mi ha consentito di vedere per ben due serate consicutive uno dei gruppi da me più amati all’apice della forma, e in qualche modo mi ha ripagato della successiva grave leggerezza di non essere riuscito due anni dopo ad andare a vedere il concerto del tour di “In utero”, pochi mesi prima della tragica fine del leader. Soprattutto rimane il ricordo di un’impresa epica nella sua estemporaneità, uno dei pochi casi nella mia sciagurata esistenza in cui come si suol dire ho preso il toro per le corna. Ne è valsa decisamente la pena, pochi cazzi.

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Smooth dog: il ritorno dei Vegetable Men

Eighties Colours“Eighties Colours: garage, beat e psichedelia nell’Italia degli anni Ottanta” è un bellissimo libro scritto dal mio amico nonchè noto giornalista musicale e soprattutto grande appassionato di musica rock Roberto Calabrò, e pubblicato nella primavera del 2010 dalla Coniglio Editore. Il libro prende le mosse dall’omonima compilation pubblicata nell’ormai lontano 1985 dalla Electric Eye di Claudio Sorge (un secondo volume sarebbe seguito due anni più tardi) per documentara la scena musicale di quegli anni, ed è un viaggio in quasi un decennio insolitamente fertile per il rock indipendente in Italia, un periodo di grande vivacità che ha prodotto svariate realtà degne di nota. Roberto ha trascorso un paio d’anni in giro per la penisola, al telefono, al computer, raccogliendo materiale e intervistando i protagonisti di quella che forse può essere considerata l’ultima reale “scena” musicale in Italia. Ne è scaturito un lavoro ricchissimo e interessantissimo, pieno zeppo di foto, testimonianze, locandine, e chi più ne ha più ne metta.

Vegetable Men 2012

foto: Marcello Di Leonardo (2012)

Tra i protagonisti di quella fertile stagione c’era anche anche un gruppo pescarese, i Vegetable Men. Nati nel 1987 dalla fusione dei Gift (il più noto gruppo locale dell’epoca) e degli A Special Night in occasione di una serata-tributo ai Pink Floyd, in breve tempo si imposero vincendo “Indipendenti ’88”, il più importante contest musicale indipendente dell’epoca, guadagnandosi così un contratto con l’etichetta discografica “Toast” di Torino, che l’anno successivo diede alle stampe il loro unico album “It’s time to change” (definito “uno dei capolavori della psichedelia italiana nell’ “Enciclopedia del rock italiano” edita nel 1993 da  Arcana) prima poi di sciogliersi l’anno successivo per dissidi interni, dopo avere accumulato comunque tantissimi concerti dal vivo in tre anni di attività. In seguito all’uscita del libro -ma anche durante la lunga fase preparatoria e di stesura- si è potuto osservare un fenomeno assai singolare: moltissimi dei musicisti coinvolti sono ritornati in attività, e chi non l’aveva mai interrotta ha rimesso in piedi la formazione dell’epoca, mentre le realtà ancora attive hanno avuto un’improvvisa e salutare iniezione di vitalità. Sono ripresi i contatti tra personaggi provenienti da ogni parte d’Italia che si erano conosciuti e frequentati in tempi in cui non esisteva la telefonia mobile nè tantomeno internet, si sono intrecciate collaborazioni, insomma un’intero movimento che era rimasto come in letargo per qualche lustro si è lentamente e spontaneamente risvegliato. E com’era naturale che fosse, il tour di presentazione del libro è stato letteralmente costellato di eventi musicali a cura dei gruppi stessi.

LibriInSpiaggiaA Pescara dunque la presentazione del libro -organizzata dall’associazione Movimentazioni e dalla libreria Primo Moroni presso il lido “La Lampara”, abituale sede di eventi multimediali di ogni genere, ovviamente presente l’autore- è stata accompagnata dal primo concerto in venti anni esatti dei Vegetable Men, riunitisi per l’occasione nella formazione originale (che poi nel loro caso è anche l’unica). Il vostro affezionato era in cabina di regia, cosa alquanto singolare se si pensa che -oltre a conoscere personalmente tutti i musicisti da tempo immemore- negli anni della scuola ero un regolare frequentatore dei loro concerti. In fondo alla pagina potrete ascoltare il brano di apertura del concerto, oltretutto affollatissimo: affluenza record di circa 500 persone, ma la sorpresa più grande è stata sicuramente la grande presenza di giovani che hanno gradito moltissimo una proposta musicale che paradossalmente forse era già datata all’epoca dei fatti. La cosa ha ridato linfa e stimoli ai nostri (oltre ad avere provocato nel giro di qualche mese anche la reunion dei suddetti Gift, dai quali provenivano cantante e chitarrista, in una sorta di delirante e nostalgico effetto domino), che quindi si sono messi al lavoro su un album di inediti, assemblando un repertorio derivato da vecchio materiale mai pubblicato opportunamente riveduto e corretto. Il progetto allo stato attuale delle cose purtroppo è fermo, ma chissà che non si riesca a recuperare in un prossimo futuro. E veniamo ai giorni nostri, o quasi.

Welcome back to the Eighties ColoursVerso la fine del 2011 dunque il vulcanico Lodovico Ellena (chitarrista degli Effervescent Elephants, anche loro di nuovo operativi con un bel disco realizzato in compagnia nientemeno che di Claudio Rocchi) partorisce un’idea per una compilation davvero originale: proporre a tutti gli artisti già coinvolti nell’operazione del libro di reinterpretare ognuno un brano dell’epoca di uno degli altri, a libera e insindacabile scelta. Fioccano come prevedibile le adesioni, diciannove le band coinvolte. I Vegetable Men dopo una serie di ascolti di materiale d’annata decidono di registrare una cover di “Smooth dog”, una delle canzoni più belle di “God was completely deaf”, unico album datato 1989 dei brindisini -ma bolognesi d’adozione- Allison Run (già presenti ai tempi in “Eighties Colours vol.2). Registriamo in un paio di giorni praticamente dal vivo a casa del bassista con una formazione ridotta a quattro elementi,   qualche aggiunta a casa del batterista e poi come di consueto mixo il tutto nella mansarda molecolare, utilizando lo stesso ormai vecchio laptop da cui vi sto scrivendo. Non ho voluto fare spoiler, ma il risultato lo potete ascoltare qui sotto. Da registrare positivamente anche il fatto che durante la lavorazione la band è stata contattata da Dario Antonetti (cantante dei Kryptasthesie), desideroso di reinterpretare una delle canzoni dell’album dei Vegetable Men, di cui chiedeva gentilmente il testo. Naturalmente glielo abbiamo tempestivamente fornito, ma all’epoca non potevamo certo immaginare quanto importante ai fini della realizzazione fosse per lui entrarne in possesso… giudicherete voi stessi, magari facendo un rapido confronto con la versione originale, che alleghiamo. Il cd “Welcome back to the Eighties Colours” è uscito nell’Ottobre del 2012 per i tipi di Psych-Out Records, con distribuzione Audioglobe, al prezzo suggerito di 10,90 euro.

Buon ascolto dunque, e spargete la voce.

 

Vegetable Men 2012

foto: Marcello Di Leonardo (2012)
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Concerto per la Memoria – Patti Smith live @ Giardino della Memoria (Bologna, 15/07/2012)

Neanche il tempo di postare la mia recensione molecolare dell’ennesimo concerto dei Cult che scopro casualmente che Patti Smith suonerà tra poche ore a dieci minuti scarsi a piedi dalla mia temporanea dimora bolognese. Pur senza fare le capriole dalla felicità mi sembra tuttavia un buon modo di trascorrere la serata, per cui mi dirigo senza indugio alla ricerca di questo fantomatico “Giardino della Memoria”: certo con scarso entusiasmo, perchè ho appena letto che gli ultimi 150 biglietti (a 10 euro, per giunta!) sarebbero stati messi in vendita sul posto a partire dalle 18.30 ma sono già le 20. Non mi sbagliavo: biglietti polverizzati. Resto tuttavia a bighellonare tra ingresso e biglietteria marcando in particolar modo coloro che ritirano i biglietti acquistati online, e dopo un po’ becco un tipo che aveva comprato due biglietti ma era rimasto da solo: scambio veloce, stretta di mano e via.

Il fantomatico “Giardino della Memoria” altro non è che un bel parco di fronte al Museo per la Memoria di Ustica, un luogo che da anni ospita diverse attività concepite per celebrare l’anniversario della strage di Ustica (27 giugno) e richiamare ancor più l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di verità rispetto all’oscura vicenda italiota. E infatti all’interno del Museo per la Memoria di Ustica è esposta l’installazione permanente “A proposito di Ustica” di Christian Boltanski, realizzata per la città di Bologna dall’artista francese per non dimenticare la tragedia. Ed è in questa cornice, molto bella devo dire, che si inserisce il concerto.

Rispetto per la figura storica e artistica a parte, non sono mai stato un grande fan di Patti Smith. L’ho già vista dal vivo anni addietro, e devo dire che nonostante la presenza di Tom Verlaine all’epoca non mi aveva entusiasmato: un concerto per lo più moscio assai, a tratti sfiancante, con giusto una mezz’oretta finale più briosa e animata che sapeva tanto di contentino. Come scoprirò a mie spese, questa sera il copione verrà puntualmente ripetuto. La “poetessa del rock” sale sul palco poco dopo le 21.30, sfoggiando quasi subito tra gli applausi a scena aperta due cartelloni gentilmente forniti da qualcuno del gentile e foltissimo pubblico che recitano testualmente “Genova 2001” e “ingiustizia è fatta”: conoscendo il tipo, presumo che stia invocando una punizione esemplare e condanne ancora più severe per chi è stato sorpreso a sfondare vetrine o incendiare cassonetti. Patti Smith è accompagnata dalla sua band di quattro elementi, tra cui spiccano naturalmente gli storici compagni Jay Dee Daugherty e Lenny Kaye (quest’ultimo suonerà anche il basso nei brani in cui il bassista “titolare” Tony Shanahan passerà alle tastiere). Il sound è brillante e molto, molto sottile: esattamente come non piace a me. Tuttavia la voce di Patti oltre a stare in forma è molto bella e soprattutto viene fuori molto bene. Si parte con un lentone, poi il secondo brano è una “Dancing barefoot” rallentata allo spasimo e trasformata anche lei in una lagna straziante che ben poco ha a che vedere con la versione originale (tutt’altro che hard, per inciso). Segue un brano dal nuovo album “Banga”, ma la musica non cambia molto, e si prosegue così per oltre un’ora. Una tipa mi fa notare che la Smith dopotutto ormai ha 66 anni, io rispondo ricordandole che anche gente come Iggy Pop o Mick Jagger non è più esattamente di primissimo pelo: d’accordo, loro hanno sempre suonato altro, e lei in fondo al di là degli appellativi non è che sia mai stata esattamente una rockettara, ma resta il fatto che mi sto annoiando a morte. Inoltre le canzoni sono intervallate da sermoni magari anche condivisibili -al di là del tono elegiaco- ma francamente il pistolotto sul terremoto mi sembra molto simile alla classica omelia del parroco ai funerali, quando cerca invano di convincere parenti e amici che il defunto ora sta meglio. Non so quanto possa interessare a chi sta nei campi in tenda con 50 gradi (e magari ha perso casa, lavoro e cari) il fatto che il terremoto è la maniera di “Mother Nature” di parlarci e noi nonostante la circostanza infelice dobbiamo cercare di ascoltarla. Non manca “Because the night”, che invece il Boss è sempre piuttosto restio ad eseguire in pubblico. Verso la fine, proprio come qualche anno prima, vengono applicati dei tubi con l’ossigeno ai cinque musicisti e il concerto sembra rianimarsi, per quanto in maniera a mio avviso un po’ forzata e forse anche prevedibile: una lunghissima versione dell’immancabile “Gloria” e un “nugget” degli anni ’60 -affidato alla voce di Lenny Kaye- in medley con “Rock’n’roll nigger”. Verso la fine Patti imbraccia anche una Fender Stratocaster con la quale si produce in interventi di stampo vagamente “noise”, che finiscono per essere anche discretamente efficaci forse proprio perchè non è una vera e propria chitarrista. Chiusura ovviamente affidata a “People have the power”, e saluto finale al pubblico bolognese con un buonista “be happy, be free, use your voice!” che sa un po’ di “stay hungry, stay foolish”, pur in un contesto chiaramente assai diverso. Una bella serata nel complesso, ma soprattutto un evento riuscito veramente bene. Alla prossima (ma anche no).

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Vietato ai minori di anni 35 – The Cult, live @ Velvet Club & Factory (Rimini, 14/07/2012)

Mi ha fatto un certo effetto rientrare al Velvet dopo tanti anni, non ricordo più neanche quanti. Tornano alla mente nebulosi ricordi di serate trascorse nello storico club delle colline riminesi a cavallo tra la seconda metà degli anni ’80 e i primissimi ’90, e la moltitudine di band straniere ammirate su quel palco. Successivamente a distanza di anni avrei anche lavorato al Velvet per un paio di concerti, dopodichè le nostre strade si sarebbero separate: fino a ieri pomeriggio appunto, quando all’arrivo mi sono soffermato a contemplare il laghetto di pesca sportiva che sorge alle spalle del locale.
Sono da sempre un grande fan dei Cult, ma questa è “solo” la quarta volta che li vedo negli ultimi 24 anni: bazzecole in confronto ai fan veri, quelli che vanno a sentire una decina di volte a stagione i loro artisti italiani preferiti seguendoli praticamente ovunque. La band ha deciso di non fare soundcheck, per cui mi devo accontentare di contemplare a un paio di metri di distanza la storica White Falcon di Billy Duffy, che riposa placidamente in uno stand insieme alle sue altre chitarre (poi magari è una replica e l’originale la custodisce gelosamente a casa, ma insomma la visione riesce ugualmente a strapparmi un brivido, e tanto basta).
Aprono la serata gli scozzesi e inutili -quasi ridicoli, a dirla tutta- Gun. Poi, dopo un cambio palco da molti giudicato eccessivamente lungo con relative lamentele, un po’ dopo le 23 salgono sul palco gli headliner, nel tripudio più totale di un migliaio abbondante di persone, prevedibilmente quasi tutte non più di primo pelo. L’incipit è assolutamente spiazzante: dalla White Falcon di Duffy infatti parte fragoroso l’inconfondibile riff di “Lil’ devil”, a ribadire la valenza del mio brivido pomeridiano, ed è subito festa. La line up è quella senza fronzoli ormai consolidata dal 2006, la migliore di sempre per quanto mi riguarda: un’implacabile, poderosa macchina da guerra dotata di una sezione ritmica granitica e chitarre come fiamme. E’ proprio il volume delle due chitarre a caratterizzare il sound del concerto, una scelta drastica che se da un lato rischia di penalizzare l’impatto puro e semplice (ma personalmente ho sempre trovato la batteria in primissimo piano una cosa volgare) dall’altro risulta appunto assai caratteristica: una preponderanza di chitarre ostinatamente e volutamente esagerata, che con i dovuti distinguo mi ha ricordato addirittura i Kyuss come impostazione. Una scelta che oltretutto rende anche piena giustizia al valore del chitarrista aggiunto Mike Dimkich -con i Cult dai primissimi anni ’90 seppure solo in tour- il quale è tutt’altro che un gregario con i riff all’unisono e la sua validissima ritmica, sempre ben presente quando partono gli infuocati assoli di Duffy: insomma, non certo il “quinto uomo” messo lì a bella mostra che poi però alla fine nemmeno lo senti (effetto che invece -e spiace parecchio dirlo- mi ha fatto Reeves Gabrels con i Cure, anche se purtroppo ho avuto modo di osservare solo video in cui comunque la sua chitarra è regolarmente assente). Il sound generale peraltro è quello classico del Velvet, faticoso e poco definito, per cui infilo i fidati tappi nelle mie preziose e malandate orecchie e mi avvicino al palco. Vi ho già detto che il concerto si svolge al chiuso? No? Ebbene, l’atmosfera è quella di una sauna finlandese, ma ciononostante Ian Astbury sfoggia bandana, RayBan, gli immancabili stivali e soprattuto un allucinante giaccone di pelle scamosciata con tanto di folto collo di pelliccia, dal quale sbucano gli avambracci tatuati e dotati di polsini neri. Da non crederci, morivo disidratato al posto suo. Voce in forma smagliante a discapito dei suoi detrattori, il solito brutto vizio di “remixare” dal vivo le proprie linee vocali, una padronanza finalmente discreta dell’inseparabile tamburello e infine qualche trucchetto del mestiere per risparmiare benzina, che però non scalfisce minimamente la performance. Mentre sotto di lui la band macina riff su riff, alternando sapientemente brani recenti e classici, con un’ovvia prevalenza di questi ultimi: “Rain” è addirittura terza in scaletta, per quanto la situazione all’interno del locale e la morsa di Caronte e Minosse la rendano assolutamente poco attendibile. “Love” continua ad essere ampiamente saccheggiato, specie dopo il tour celebrativo del 2009, e come sempre “Nirvana” e “The phoenix” finiscono per essere tra i momenti migliori della serata. Ottima la resa dal vivo del recentissimo singolo “To the animals”, mentre un cambio di tutte le chitarre preannuncia le accordature ribassate di “Rise”, il singolo apripista da “Beyond good and evil”, l’album che nel 2001 ammiccando maldestramente al cosiddetto nu-metal ebbe tuttavia il merito di riportare in pista la band inglese naturalizzata americana in maniera più che convincente. “Fire woman” dal vivo è sempre troppo veloce finendo per perdere la sua cadenza, e dopo “Wild flower” la scaletta si conclude prevedibilmente con l’immortale anthem “She sells sanctuary”. Dopo la pausa si riparte con “Embers”, un ballatone horror dall’ultimo album che Billy Duffy dedica addirittura a Roberto Mancini (!!!), seguito a ruota da una trascinante “Spiritwalker”, per poi subito dopo concludere -dopo una goffa imitazione di Pavarotti ispirata ad Astbury da un tale Luciano allocato tra le primissime file- con la sagra finale di “Love removal machine”. Tutti a fronte palco per presentazioni e saluti, con John Tempesta (storico batterista dei White Zombie, newyorkese con ascendenze baresi e parenti sparsi pare tra Bologna e l’Abruzzo forte e gentile) che annuncia il 39esimo compleanno dell’ottimo bassista Chris Wyse, e poi via nel backstage.
E mentre me ne torno verso la mia provvisoria dimora estiva bolognese dopo la consueta serie di peripezie molecolari di carattere logistico/notturno, pur compiaciuto per l’esibizione mi dico che certamente non si tratta di nulla di nuovo o di rivoluzionario, e chi cerca la contemporaneità a tutti i costi e un certo tipo di appeal farà senz’altro bene a rivolgersi altrove. Tuttavia mi fa anche piacere imbattermi di tanto in tanto in dinosauri che anzichè trascinarsi stancamente come carcasse arse dal sole riescono a proporre il loro repertorio in maniera credibile e convincente ma soprattutto convinta, senza dunque tramutarlo in una minestra riscaldata per pochi azzimati nostalgici. In simili casi puoi tranquillamente sorvolare sul fatto che il materiale più recente non sia all’altezza di quello consegnato a suo tempo ai posteri, perchè in fondo il segreto è tutto lì: nella credibilità, quella che manca sempre di più nell’era dei social network, degli smartphone e delle webzine, in cui l’ “indie” (concetto di per sè nobile, alle origini) si tramuta in un’etichetta e finisce per rendersi detestabile. Sfoglio l’ultimo numero di “Rumore” e mi rendo conto che conosco ben poco di quello che popola le sue pagine, mi accorgo di stare invecchiando e di non averne nessuna voglia, e magari mi sto anche tramutando in un nostalgico. Si vedrà: nel frattempo i Cult dopo avere corso tempo addietro di trasformarsi nella parodia di sè stessi sono riusciti ad evitare il deragliamento e ad invecchiare bene come il vino, per tutto il resto c’è la musica del terzo millennio.
Certamente però se nel 2012 non vendi il tuo disco al tuo concerto non si capisce proprio dove tu pretenda di venderlo: forse per corrispondenza, come quando eravamo giovani?

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La casa sul mare – Storia e storie dell’Hana Bi (di Arturo Compagnoni)

Pubblico volentieri questo bell’articolo uscito sul numero di Giugno 2012 del mensile musicale “Rumore” a firma di Arturo Compagnoni, che ringrazio per la disponibilità e la concessione. Descrive molto bene una piccola grande realtà, molto particolare e forse unica nel panorama nazionale. Come anche l’autore ha molto correttamente premesso, devo ammettere che sono di parte perchè conosco personalmente uno dei gestori (nonchè direttore artistico), tuttavia ritengo che la validità di quanto avviene all’Hana Bi sia del tutto indiscutibile e in un mondo ideale potrebbe servire da modello per molti. All’atto pratico invece con ogni probabilità resterà un caso isolato, e forse è meglio così.

Hana Bi

Scorrendo la carta geografica della Romagna dall’alto verso il basso, Marina di Ravenna è il primo dei lidi sud della costa ravennate, una lunga fila di piccoli paesi situati a seguire il canale Corsini, naviglio che collega Ravenna con l’Adriatico.

Due sono le immagini che colpiscono la prima volta che ti avvicini al litorale ed entrambe risultano contrapposte in maniera piuttosto netta alla tipica rappresentazione da cartolina che fotografa una qualunque località turistica: l’infinita progressione di ciminiere che si alzano in lontananza sulla sinistra, testimonianza ben visibile del polo petrolchimico che ha sede nel porto di Ravenna, poi una volta arrivati sul posto l’evidente inesistenza di una passeggiata che accompagni il lungomare: una interminabile pineta separa difatti la costa dalla strada che la fiancheggia.
Niente di irreparabile, ma un biglietto da visita non propriamente da incorniciare.
Ciò nonostante a partire dalla fine degli anni ‘90 Marina ha conosciuto un clamoroso boom, diventando un luogo di tendenza capace di oscurare il mito di altri più celebri nomi rivieraschi. Due i fattori che ne hanno veicolato l’esplosione, messi in moto dai locali stabilimenti balneari che hanno fatto della specializzazione la loro caratteristica fondamentale: il tennis giocato sulla spiaggia (beach tennis, appunto) e gli happy hour che hanno repentinamente animato la battigia trasformandola in un gigantesco dance floor.

Parcheggiata la macchina lungo la strada, infilarsi nei sentieri sabbiosi e ingombri di aghi di pino che la collegano al mare dà la sensazione di essere finiti dentro un b-movie americano dei ‘70 piuttosto che all’estremo lembo della riviera di Romagna, tanto che quando ti siedi in spiaggia mentre il sole sta calando alle spalle dietro la pineta ti aspetti di vedere spuntare i surf all’orizzonte, con le piattaforme petrolifere a far da sfondo.
E in effetti quando il vento si agita e il mare si muove, le tavole viaggiano davvero sull’acqua scura: praticamente una fetta di California acquistata al discount sotto casa.
In questo contesto nasce e prende rapidamente forma l’idea Hana Bi, nome preso in prestito da una pellicola di “Beat” Takeshi Kitano per lo stabilimento contrassegnato dal numero 72 sul litorale: concerti e musica alternativa al bordo della spiaggia con il mare davanti, la pineta dietro, due dune a far da confine ai lati e quella tettoia allungata sopra al palco e alla piccola pista di cemento antistante, destinata a ritagliarsi un posto di assoluto rilievo nell’esistenza di molti.
Chris Angiolini è il direttore artistico, nonché gestore del locale assieme all’inseparabile Andrea “Azza” Ferrari. Tutte le dichiarazioni riportate di seguito, salvo non indicato altrimenti, sono sue.

“Penso che scegliere un luogo come questo per organizzare concerti sia stata una felice intuizione: l’ambiente particolarmente evocativo permette di far convivere informalità e professionalità. L’idea di utilizzare una semplice pedana rialzata come palco, dotandola comunque di ogni caratteristica tecnica idonea a fare esibire gli artisti, diventa per gli stessi un valore aggiunto poiché regala loro l’opportunità ormai rara di trovarsi in contatto ravvicinato con il pubblico e di immergersi così con esso in uno scambio di energie che li ripaga di tutti i sacrifici fatti e dei chilometri percorsi. Linfa vitale.
Il tempo ha dimostrato come la nuova tendenza per la musica dal vivo, mi riferisco principalmente a quella scena che potremmo definire per comodità alternativa, sia quella di ricercare luoghi e situazioni atipiche, come ATP e Coachella insegnano. Perché è là dove la musica concretamente si compie e si svela che si generano quelle emozioni che ne costituiscono l’essenza, in opposizione allo scambio freddo e passivo di un banale tragitto via cavo da un hard disk alle nostre orecchie”.
A fargli eco segue a ruota Vasco Brondi, uno che il posto lo conosce bene: “Ho suonato due volte all’Hana Bi e diverse altre sono capitato lì da spettatore. Ha la capienza illimitata e il palco minuscolo che non è un palco e forse per questo funziona meglio. La vicinanza tra chi suona e chi ascolta è una specie di cerchio. Le distanze, le accordature sbagliate, le allegrie, i malumori passano attraverso tutti. Si sta vicinissimi non si può fare finta di niente. La programmazione non si rinchiude dentro mondi separati di generi o forme. Si entra gratis e c’è una spiaggia; forse fa parte di quella idea che viene da lontano di prendersi dei posti che quasi istituzionalmente dovrebbero avere altre funzioni inutili e di trasformarli. Riempirli di altri contenuti”.

Personalmente sono parte in causa, è bene dirlo subito per sgomberare il campo da equivoci. All’Hana Bi faccio presenza fissa da anni e da anni ci lavoro come dj.
Mi appoggiai per la prima volta al banco del bar una mattina di maggio a metà degli anni zero senza immaginare che quel gesto in futuro lo avrei compiuto altre decine e decine di volte. Bastò la reazione della barista alla vista della maglietta che indossavo per non lasciare dubbi circa la giustezza del posto. Era una t-shirt bianca raffigurante uno strano ranocchio, quello disegnato sopra la copertina di un disco chiamato Hi, How Are You?. La ragazza in preda a un entusiasmo quasi imbarazzante chiamò uno dei gestori del locale che in quel momento era nel retro: doveva assolutamente vedere un tizio con la maglietta di Daniel Johnston, entrato per ordinare una birra in una calda mattina di maggio.
Il gerente era un tipo strano: squadrato, vestito di nero e rasato in testa. Non esattamente l’immagine di uno che ti apre l’ombrellone ogni mattina, stendendo sdraio e lettini prendi sole. Pareva un metallaro e si chiamava Chris. Di lì a qualche giorno lo conobbi sul serio, la sera del concerto dei Supersystem sulla spiaggia.
Mi raccontò che prima di inaugurare l’Hana Bi nel 2004 non aveva mai frequentato la spiaggia di Marina di Ravenna, famosa per i suoi happy hour, fino a che non ha iniziato ad immaginarla come un deserto su cui proiettare immagini di film di John Ford e Steve Mc Queen o spaghetti western la cui colonna sonora non poteva che essere un disco dei Calexico o le Desert Sessions che collezionava nelle versioni 10″ della mitica Man’s Ruin.
L’idea di base era quella di far diventare l’Hana Bi la spiaggia di chi in spiaggia di solito non andava.
Negli anni ’90 Chris suonava nei Miskatonic University, hard core, atipico come atipico è un po’ tutto ciò che lo riguarda: “All’epoca andai anche a casa di Claudio Sorge per un’intervista, in treno, a Pavia. Nel frattempo misi in piedi un’etichetta, si chiamava Boundless Records, per qualche anno diventò anche negozio di dischi.
Ancora adesso la mia filosofia imprenditoriale e di vita prende spunto da quel do it yourself di scuola Dischord col quale sono cresciuto”
Pur non essendo tipo che concede facilmente confidenza al prossimo, sentii immediatamente la necessità di rendermi complice di quella faccenda. Chiesi se ci fosse spazio per suonare un po’ di dischi lì sulla spiaggia sotto la tettoia, tra la pineta e il mare. Chris mi rispose subito di si: “Ti conoscevo già – confessa oggi – sono sempre stato un lettore di Rumore che compero dal primo numero, quello con i RHCP in copertina”.
Da lì partono una serie di flash back che si srotolano a nastro: le domeniche pomeriggio in consolle, le cene nella grande veranda sul retro, la prima volta di mio figlio in quel posto nemmeno compiuti due mesi, tra le braccia di Manuel Agnelli.
I tanti concerti, stipati in un diario che assieme abbiamo vissuto e che assieme ora sfogliamo: le quattro volte degli I’m from Barcelona, in viaggio su di un pullman stile squadra di calcio, che farlo entrare e uscire dallo sterrato ingombro di aghi di pino è come manovrare un carro armato dentro un garage: “Con loro è sempre la festa dell’estate: si parte dalla tettoia e si arriva in acqua per il rituale bagno notturno tutti assieme come da tradizione e poi ogni Natale arriva dalla Svezia la loro cartolina di auguri con la quale ci danno appuntamento per la successiva estate”. Il rock and roll dei Gories e degli Oblivians con la gente arrampicata ovunque: “Ad un certo punto qualcuno aprì le serrande del locale sul retro per poter vedere il concerto da dietro al palco che nel frattempo si era trasformato in un vero e proprio ring”; l’incredibile, lunghissima giornata in attesa dei Pains of Being Pure at Heart e ancora le stelle che la notte di San Lorenzo di qualche anno fa cadevano una dietro l’altra inghiottite dalla pineta dietro al palco mentre Samuel Beam cantava le canzoni di Iron and Wine assieme a centinaia e centinaia di persone: “Direi forse migliaia, una notte che entra di diritto nella storia dell’Hana Bi”. National e Gossip sulla spiaggia di fronte al mare un attimo prima di affrontare arene sterminate: “Ho avuto modo di incontrarli entrambi in seguito. I National a Tucson si ricordavano talmente bene di quel concerto che ci hanno voluti loro ospiti sia al concerto che nell’aftershow, Beth Ditto invece all’Estragon di Bologna mi ha confessato che dall’Hana Bi aveva trafugato due teli da mare che usa ancora nel suo bagno di casa”. E ancora Wavves e Crocodiles alcolici e sregolati; Bonnie Prince Billy tra un oceano di gente: “Fu un vero e proprio last minute, pochissimi giorni per promuovere uno dei tanti sogni divenuti realtà. Una serata speciale, con un Bonnie decisamente ispirato e piacione. Ma quello che mi fa ancora sorridere è ricordarlo cimentarsi col racchettone senza praticamente riuscire mai a colpire la palla”. E gli Oneida che qui suonarono due volte come fosse l’ultimo giorno prima della fine del mondo: “Ti correggo, gli Oneida hanno suonato ben tre volte e proprio la scorsa estate ci hanno regalato il live definitivo, un vero e proprio tsunami psichedelico. Se permetti poi aggiungo un tuffo in un passato leggermente più remoto: penso che non dimenticherò mai quella notte con i Liars e Asia Argento. Puro delirio cristallino”.
Come forse avrete intuito, la caratteristica dei concerti ripetuti da parte di una stessa band anno dopo anno, è un tratto distintivo della programmazione da queste parti. In genere coloro cui capita la ventura di passare dall’Hana Bi poi fanno di tutto per tornarci: “Siamo sempre disposti a cambiare i nostri piani di viaggio pur di suonare lì – dichiara Jeremy Barnes degli A Hawk and a Hacksaw – anche se ciò significa guidare per un giorno intero da una parte all’altra d’Italia e il giorno dopo mettersi in viaggio verso Lione. Lo staff dell’Hana Bi ha creato una mecca musicale sulla spiaggia, un posto dove puoi nuotare nel mare, prendere il sole in spiaggia, mangiare dell’ottimo cibo e ascoltare grande musica ad ogni ora del giorno. E’ uno dei pochi posti al mondo in cui i musicisti, che sono lì per lavorare, sono ancora più contenti e rilassati del pubblico, che invece è lì solo per divertirsi”.
Altri decidono addirittura di trasferirvi definitivamente le proprie radici: “La prima volta che sono stato qui ero coi Bachi Da Pietra, nell’agosto del 2005 – ricorda Bruno Dorella – a suggello di una collaborazione con Chris che stava nascendo subito come una cosa importante, e che infatti mi ha portato non solo a suonare una quantità di volte ormai impossibile da quantificare a Ravenna con Bachi, OvO e Ronin, ma soprattutto a trovare in Chris un sincero giudice e consigliere del mio lavoro, dal suo punto di vista di promoter e di vero appassionato di musica. Negli anni ho suonato molte volte e visto suonare molti gruppi all’Hana Bi. Ogni gruppo italiano ma soprattutto straniero, esprime il desiderio, o quantomeno la fantasia, di venire a vivere qui. Io l’ho fatto: vivo a Ravenna dal 2011. L’Hana Bi è diventato la mia seconda casa, il rifugio tra un concerto e l’altro, la vacanza a pochi chilometri dal mio letto. Il mare di Ravenna non è limpido e cristallino certo, ma quando arrivi all’Hana Bi alle 10 mattina e dalle casse sopra al bar esce la voce di Elliott Smith capisci di essere arrivato nel posto giusto”.

Se l’Hana Bi è un posto speciale lo si deve certo alla sua location naturale che indubbiamente favorisce buonumore e distensione, ma anche a come il posto viene gestito e per come e quanto le persone che di lì transitano – pubblico, musicisti, camerieri, cuochi e baristi – sono disposti a farsi coinvolgere dal luogo e dalla sua atmosfera, ad esserne attori in prima persona: “Mi chiedi cosa rende questo posto così speciale? L’anima collettiva, merce piuttosto rara in un’epoca di grande frammentazione e individualismo sfrenato. L’Hana-Bi diventa la sintesi reale del mondo virtuale, è il luogo in cui le comunità si incontrano e trovano l’occasione per un ritorno alla condivisione concreta tra individui veri, di nuovo distinguibili dai loro alter ego virtuali”. La sintesi di Chris è lapidaria e perfetta. Attorno a lui e alla sua azienda, perché di questo si tratta, ruotano in qualità di dipendenti nell’arco dell’anno dalle 20 alle 40 persone, considerando le parallele gestioni del Bronson, club con base a Madonna dell’Albero qui vicino e del Fargo curatissimo bar aperto nel centro di Ravenna. E tutti, chi più chi meno, sono appassionati di musica: “E’ sicuramente uno dei miei criteri di selezione del personale, una scelta precisa nell’ottica della condivisione di un progetto che vuole essere speciale a partire dall’aria che si respira. All’inizio non ero pienamente consapevole di quello che stavo creando, ci sono arrivato un po’ alla volta ricevendo segnalazioni e informandomi: leggendo articoli e testi sulla comunicazione e sulle imprese culturali. Ne è venuta fuori un idea imprenditoriale moderna che si fonda su concetti come “l’economia delle esperienze”, tanto che il bagno 72 di Marina è stato oggetto di tesi di laurea e articoli di docenti universitari”.
A proposito di personale e del suo coinvolgimento con la musica, in cucina da un paio d’anni bazzicano due ragazzi che i lettori di Rumore dovrebbero conoscere bene: Paolo “Maolo” Torreggiani anima di My Awesome Mixtape e Quakers and Mormons e Matteo “Napo” Palma, voce di Uochi Toki: “Chris necessitava di qualcuno che potesse aggiornare e implementare la cucina classica delle spiagge dell’alta Romagna aggiungendo sfizi, abbinamenti e gusti che il classico bagno al mare generalmente non raggiunge – racconta Napo. Sia io che Maolo siamo autodidatti, abbiamo imparato a cucinare in casa confrontandoci direttamente con le materie, non abbiamo un bagaglio di esperienze da chef ma abbiamo un certo slancio e propensione all’apprendimento. I nostri maestri sono sempre stati gli ingredienti, più che i cuochi.”
Non solo musica dunque ma anche cibo. Cibo per lo stomaco e cibo per la mente: incontri con gli autori che raccontano e si raccontano. Memorabile la distesa di folla di fronte a un Marco Travaglio caustico come non mai, le digressioni noir di Carlo Lucarelli, le pagine usate come lame di rasoio da Nicolai Lilin, la passione con cui Federico Guglielmi ha raccontato quel punk delle origini da lui vissuto in prima persona, la filosofia breriana con cui il maestro Gianni Mura ha affrontato il football e l’eloquenza quasi cabarettistica con cui il nostro Maurizio Blatto ha snocciolato gli aneddoti contenuti nel suo divertentissimo libro.
Edutainment a tutto tondo dunque, a testimonianza di quello che per la gente di qui è un progetto che si sviluppa da tempo e nel tempo, seguendo un percorso niente affatto casuale chiarito ancora una volta dalle parole di Chris: “La grande sfida del contemporaneo é quella di riuscire a conciliare la realtà tangibile con quella virtuale la quale, soprattutto grazie a social network e downloading, sta prepotentemente appropriandosi di abbondanti porzioni della nostra quotidianità. Stiamo vivendo un’epoca di transizione e non possiamo ignorarlo. E’ qui che arte e cultura devono accettare la sfida di individuarne i modelli interpretativi”.
Il futuro? “La sfida del 2012 è quella con il formato festival: sulla spiaggia dell’Hana Bi si terrà “Beaches Brew” una tre giorni (6, 7 e 8 giugno), ovviamente gratuita curata in collaborazione con l’agenzia olandese Belmont Bookings che vede confermate, al momento di andare in stampa, le presenze di War on Drugs, Bear in Heaven, Blanck Mass, Sleepy Sun, Calibro 35: ovviamente è una puntata zero, ma tutto lascia supporre che l’evento crescerà in fretta”.
Smessi i panni di manager Chris, per concludere, che diavolo hai messo in piedi qui?
“Ti rispondo con il cuore in mano: l’Hana Bi è la spiaggia che non abbiamo avuto da adolescenti. Leggendo le parole di Bruno qui sopra, mi è tutto più chiaro. Non ho fatto altro che cercare di riprodurre il mio immaginario di adolescente. ho realizzato un sogno.
Il mio deserto fra le dune, il mio fortino da difendere, un mondo fino a prima impensabile nel quale possono convivere le realtà più disparate.
E mentre fuori infuriano gli happy hour commerciali noi ci balliamo Folsom Prison Blues con due birre in mano”.

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Recording Hacks contest

Microphone Contests

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Il modo più “in” di essere “out”

(scritto il 4/10/2K11 per il concorso “Outlet Shopping Stories″, promosso dal “Festival delle Letterature dell’Adriatico” di Pescara)

Il tempo di aprire gli occhi, e con la complicità di quel poco di luce che riesce a penetrare a fatica nella stanza ogni flebile speranza di svegliarmi in un letto che non sia il mio è puntualmente e impietosamente risolta, come da copione. Poco male, dopotutto ci ho fatto il callo, e soprattutto oggi ho ben altro a cui pensare.
Devo assolutamente smaltire -e in fretta- una colossale sbronza, anzi ben due in una: la sbornia madre difatti a ben vedere altro non è che la cocente delusione per non essere riuscito a conquistare l’agognato trofeo in un premio letterario. Se mi state dando dell’ambizioso, o peggio dell’esibizionista, siete assolutamente fuori strada. Al limite fareste molto meglio a darmi del venale, giacchè avevo partecipato con il solo ed esclusivo obiettivo di entrare in possesso del primo e unico premio in palio: un maledettissimo iPad. L’attuale pesante congiuntura economica della mia sciagurata vita infatti ahimè mal si concilia con l’ampio ventaglio di funzioni che il gadget in questione sarebbe in grado di svolgere per il sottoscritto, da un punto di vista squisitamente professionale, s’intende. E per quanto riguarda il suo presunto prestigio? Beh, probabilmente potrei sfoggiarlo in qualche locale pseudo-cool del maxipaesone in cui vivo, e riuscire così ad attirare l’attenzione di qualche pischella con migliaia di euro indosso, che probabilmente a malapena riesce a parlare un italiano accettabile ma in compenso -vedendomi diteggiare con disinvoltura sull’affascinante lavagnetta luminosa della Silicon Valley- potrebbe individuare un’ipotetica corrispondenza di amorosi sensi col vostro affezionato solo in virtù dell’invidiabile iPhone 6H che scintilla sornione all’interno della sua Vuitton, fremendo per far notare la sua presenza grazie a una suoneria dalla melodia sicuramente raccapricciante, e soprattutto dolosamente impostata ad un volume da festival rock estivo in Olanda. Il tempo di infilarmi in bocca il contenuto di una bustina di aspirina granulare sublinguale e sono sotto la doccia, cercando di domare l’hangover in previsione dell’umiliazione che mi attende: tra poco mi recherò in un notissimo outlet alle porte del centro abitato, dove c’è un negozio hi-tech che vende il maledetto tablet a un prezzo allettante, e soprattutto dove potrò abusare per l’ennesima volta della mia tessera Findomestic. Proprio lei, a cui avevo giurato a me stesso di non ricorrere, sicuro com’ero della mia vittoria. E umiliazione nell’umiliazione, il viaggio della passione si svolgerà utilizzando il trasporto pubblico: la mia vecchia station wagon infatti giace da mesi sotto casa senza assicurazione, e sarà ormai diventata rifugio per homeless (ammesso e non concesso che sia ancora lì).
E’ tardi, niente colazione: dopotutto mi sto recando nel regno del consumismo occidentale per antonomasia, ci sarà pure un cazzo di bar. L’atmosfera sull’autobus è degna di un sobborgo di Londra: solo extracomunitari, qualche anziano e io, certo non più di primo pelo peraltro. Per quanto fautore delle società multirazziali, mi rendo conto che altri punti di contatto con una metropoli non ce ne sono proprio, e complice il residuo di cerchio alla testa mi deprimo ancora di più e ripenso a qualche giorno fa, quando un’amica mi aveva invitato a partecipare a un altro concorso: “ma se non si vince niente!”. Lei carina mi fa presente che si vince la pubblicazione, e io sprezzante: “per farmi scrivere anche poche righe ci vuole almeno un iPod”.
Sceso dal pullman imbocco dunque l’ingresso principale e mi faccio largo nell’informe masnada urlante di primati, accalappiata al pari mio da offerte di ogni genere (solo in apparenza convenienti, naturalmente). Veramente un posto di merda, mi dico entrando nel primo bar che incontro, che proprio varcando la soglia scopro essere attiguo -ironia della sorte- al negozio di elettronica in cui tra poco il mio orgoglio residuo capitolerà definitivamente sotto il peso del capitalismo occidentale. “Che sfigato” penso sorseggiando un the verde con la vodka “non è neanche un Apple Store”. Ma ognuno ha quel che si merita, dopotutto. Pago, esco ed entro nel negozio di fianco: come prevedibile, i desideri della fremente e buzzurrissima clientela si concentrano su oggetti tutt’altro che affascinanti, e quando vedo il sospirato apparecchio dei miei sogni esposto con noncuranza su una lavatrice ultimo grido mi si stringe letteralmente il cuore. In preda a una crisi di coscienza mi passa davanti tutta la mia vita, proprio come dicono che accada quando stai per morire. Mi rivedo di belle speranze negli anni ’90, quando divoravo booklet dei dischi di gruppi grunge famosi e non, sognando di essere un giorno in tournèe con loro negli stadi statunitensi: lì avrei avuto sicuramente con me ogni genere di ritrovato tecnologico (per non parlare dell’atmosfera nel tour bus, e soprattutto dell’ampia scelta di groupies nel backstage) e magari mi sarei potuto candidare anche a qualche trofeo stile “Best Live Sound 2011”, per poi naturalmente vincerlo e assicurarmi così un meritatissimo iPad. Altro che concorsi letterari di provincia, autobus maleodoranti semideserti e finanziarie che un giorno probabilmente verranno a pignorarmi pure il letto (che per giunta, come ho detto in apertura, è regolarmente il mio). Dal drammatico torpore in questione mi scuote provvidenzialmente la vibrazione del mio vecchio Nokia del cazzo -nulla a che vedere con gli smartphone della mela, ovviamente- che mi informa solerte della presenza di ben due messaggi: il primo è un mms del mio amico Fausto immortalante la facciata dell’Electric Ballroom di Londra dove tra poche ore si esibiranno i Melvins, e date le circostanze lo cancello immediatamente. Nel secondo, la mia amica mi informa che il premio letterario da me sprezzantemente irriso in precedenza è stato prorogato di una settimana e hanno inserito in palio un iPad.
Per fortuna ho ancora il numero del radiotaxi in rubrica: crepi l’avarizia, ma soprattutto affanculo l’outlet.
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Il mio regno per un iPad, ma anche no.

(scritto il 9/10/2K11 per il concorso “Match d’autore 2011”, promosso dall’associazione culturale “Montesilvano Scrive”).

Ho sempre trovato singolare il fatto di essere uno dei pochi a non averne uno, quando per varie ragioni dovrei essere uno dei pochi ad averlo. Di cosa sto parlando? Ma naturalmente dello stramaledetto iPhone (o per dirla all’italiota “aifòn”, che a me però fa pensare a un meraviglioso asciugacapelli in alluminio con tanto di mela bianca luminosa). Soprattutto ora che non è più uno status symbol, perchè appunto ce l’hanno tutti. Ma quando ho visto l’iPad ho capito che dovevo assolutamente possederlo: al di là dell’aspetto strettamente gadgettistico, nel mio lavoro ci puoi fare cose davvero inenarrabili. Ma senza il becco di un quattrino, come fare? Lentamente monta in me una sorta di ossessione, e quando vedo qualcuno munito di iPad lo etichetto immediatamente come mio nemico. Ho perfino sognato di essere a cena (“stay hungry”?) col povero Steve Jobs che mi prometteva di farmene avere uno, solo per svegliarmi di soprassalto tutto sudato, accendere il mio Mac e apprendere della sua scomparsa. Poi, la classica lampadina: mentre mi ubriaco in un bar di fiducia sognando l’amato iPad, i miei occhi lucidi si posano casualmente sulla locandina di “Match d’autore”: un concorso letterario il cui primo premio è proprio l’ambita tavoletta! “E’ fatta” penso tra me e me “figurarsi, c’è gente che dice che dovrei fare lo scrittore dopo aver letto le stronzate che scrivo su Facebook, sarà un gioco da ragazzi”. Insomma, avevo praticamente già la vittoria in tasca, quando all’improvviso realizzo che non basta inviare il proprio racconto bensì -una volta superata una prima selezione- bisogna anche leggerlo in una sorta di ring letterario, recitandolo davanti a una platea! Al di là del fatto che malgrado la mia aria da tagliagole sono una persona di una timidezza esagerata, ci ho visto un controsenso nei termini: se io ho scritto, perchè devo pure leggere? Leggete voi e fatemi sapere, che cazzo! Ma soprattutto, senza malizia, ci ho visto anche l’offerta dell’ennesima occasione per mettersi in mostra, per “apparire” insomma (e dove poi? A Pescara? A Montesilvano?), di cui francamente non mi può fregare di meno. E quindi no: non mi avrete, maledetti scribacchini. Che il diavolo vi si porti. Niente racconto, niente concorso, niente iPad: l’orgoglio molecolare non ha prezzo, e non può essere svenduto al miglior offerente come fosse un maglione ai saldi, nossignori. Domani è un altro giorno: si va alla Findomestic. Per tutto il resto c’è il gratta e vinci. Altro che match d’autore.

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Vent’anni e non sentirli, decisamente.

Il 24 Settembre  1991 ero a Bologna: la mia ex-città, come mi piace chiamarla affettuosamente. In realtà è semplicemente il posto dove sono nato e cresciuto, finchè nei primissimi anni ’70 -alle soglie del primo anno scolastico- qualcuno mi ha trascinato senza chiedere il mio parere in quello che a posteriori ho fieramente definito “il letamaio adriatico”. Ebbene, nell’autunno precedente, mi ero iscritto a Pescara ad un corso per tecnico del suono patrocinato dalla Regione Abruzzo: ovviamente si trattava di una cagata assurda, approssimativa e dozzinale, che non mi insegnò nulla che già non sapessi, salvo che per il migliore in campo era previsto un mese di stage estivo in un prestigioso studio di registrazione del capoluogo emiliano, obiettivo puntualmente centrato (non che fosse così difficile, in effetti). E a fine estate, a chiusura delle lezioni, stage di tre giorni per tutti i corsisti nel medesimo studio: eccomi dunque di nuovo a Bologna! Ma in quel lontano giorno di settembre, in tutta sincerità, del corso e dello studio non me ne importava un fico secco: sapevo che quello era il giorno schedulato dalla Geffen Records per l’uscita in contemporanea mondiale di “Nevermind”, il secondo album dei Nirvana, band americana emergente su cui il colosso discografico statunitense aveva deciso di giocarsi tutte le sue carte. Il vostro affezionato in realtà era un fan dei Nirvana della primissima ora, possedeva praticamente tutta la loro esigua discografia fino a quel momento pubblicata, e già scontava il fallimento -un paio d’anni prima- di una spedizione di pescaresi al Bloom di Mezzago (MI) proprio per vedere i suoi nuovi giovani beniamini, che aprivano il tour europeo degli allora ben più noti Tad (quartetto hard rock di Seattle capitanato dal corpulento frontman Tad Doyle). Fibrillazione molecolare, dunque. Oltretutto sapevo che già da qualche tempo circolava il video del nuovo singolo, ma non avevo MTV e non essendoci ovviamente YouTube e similari non lo avevo beccato altrove, dunque potevo solo fidarmi di opinioni peraltro anche contrastanti (“si sono sputtanati!!!”). Insomma, non avevo ancora ascoltato nulla. Nel pomeriggio mi reco quindi allo storico “Disco d’oro” di via Galliera, che nel corso degli anni ’80 avevo ampiamente foraggiato coi miei risparmi di adolescente, solo per sentirmi dire che il pacco contenente l’ambito disco non era ancora stato consegnato e che sarei dovuto tornare più tardi. Ringrazio e mi dirigo senza indugio dalla concorrenza, Underground Records di via Malcontenti, giovane e dinamico record shop di recente costituzione e grandi ambizioni (in seguito avrebbe anche pubblicato “Stanze”, fulminante esordio discografico dei bolognesi Massimo Volume). Stessa risposta, ovviamente. Appariva chiaro che i due pacchi erano contenuti nel medesimo furgone, e che contava solo beccare il primo dei due negozi servito dal corriere: inizia dunque un’estenuante staffetta molecolare da un negozio all’altro, finchè intercetto il prezioso pacco al Disco d’Oro, dove viene aperto davanti ai miei occhi. Acquisto a scatola chiusa e torno al mio hotel, scoprendo che il mio coinquilino era assente: molto bene. Lettore cd portatile e cuffie, parte “Smells like teen spirit”: per quanto sorpreso dall’evidente sterzata, penso “cazzo, mica male” ma non mi entusiasmo. Questa sorta di indifferenza però ha avuto breve vita, perchè all’ingresso dei cori sulla seconda metà del primo ritornello di “In bloom” il vostro affezionato abbandona quella che è stata recentemente definita la sua “aria da tagliagole” per scoppiare in un pianto dirotto, di commozione ovviamente. Quel pomeriggio ho ascoltato l’intero album due o tre volte di seguito credo, e il giudizio è stato a dir poco entusiasta: e nonostante come ho detto fossi un fan della prima ora e dunque in un certo senso un purista, non solo ho apprezzato molto la contestatissima “svolta” compositiva del trio di Seattle, ma ho anche trovato molto più riusciti gli episodi più smaccatamente melodici, in palese contrasto con la produzione precedente della band. E a proposito di produzione, vista anche la professione che mi accingevo ad intraprendere proprio in quel periodo, trovai la produzione, gli arrangiamenti e il suono in generale di “Nevermind” assolutamente impeccabili. Un prodotto mainstream certamente, confezionato con furbizia, ma confezionato anche con sapienza e gusto. Cobain era risaputamente poco soddisfatto dei risultati, pur avendo scelto personalmente sia il produttore (Butch Vig, batterista dei Garbage) che il fonico che ha mixato l’album, il pluripremiato Andy Wallace, che catturò l’attenzione di Cobain perchè il primo nome in cima alla lista dei suoi credits discografici che si era fatto fornire dall’etichetta erano nientepopodimeno che gli Slayer! Non a caso la premiata ditta Vig/Wallace avrebbe successivamente sfornato sempre per la Geffen il seminale (e “pop” anche lui, in qualche modo) “Dirty” dei Sonic Youth. Ma reclami del compianto Kurt a parte, “Nevermind” era semplicemente il disco giusto al momento giusto, e il revisionismo attuale per quanto mi riguarda può tranquillamente andare a farsi fottere. Non mi soffermerò sul valore di questo importantissimo album, sul suo ruolo di spartiacque musicale, sociale e culturale al tempo stesso, su tutto ciò che insomma è stato ampiamente sviscerato in questi vent’anni. Volevo solo raccontare la mia esperienza in occasione di un anniversario importantissimo, e come al solito ribadire che si stava meglio quando si stava peggio: vi dico solo che lo stesso giorno uscì anche un altro disco curiosamente intitolato  “Blood sugar sex magic”, tanto per dirne una. E se infine postare il video di una qualunque canzone tratta da “Nevermind” allo stato attuale delle cose sarebbe assolutamente superfluo, e soprattutto nulla aggiungerebbe e nulla toglierebbe a quanto ci siamo detti finora, preferisco farvi raccontare da mr. Butch Vig in persona la costruzione di quel famoso ritornello che fece scoppiare in lacrime il vostro eroe, e capirete come la mia reazione non fosse un caso ma fosse assolutamente cercata, impiegando a regola d’arte tecniche mutuate nientepopodimeno che dai Beatles. E pensare che c’è ancora tanta gente in giro che considera “pop” una brutta parola. Poveretti.

P.S.
Un giorno o l’altro vi racconterò di come al nostro eroe capitò in maniera alquanto rocambolesca di assistere non ad uno bensì a due concerti dei Nirvana, nel novembre dello stesso anno (“the year the punk broke”).

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